A proposito di Resident Evil: La serie – La recensione della serie Netflix

“Resident Evil: La serie” è la nuova bestia nera dell’intrattenimento made in Netflix e il nuovo bersaglio (immobile) della critica.

Tra chi odia lo show in quanto appassionato di film e serie TV e chi lo odia perché appassionato di videogiochi, la carneficina ai danni di New Raccoon City è servita.

Intendiamoci, siamo ben lontani dal capolavoro. Del resto con un background così, tra libri e videogiochi di successo, il flop è sempre in agguato. L’esempio calzante? Resident Evil: Welcome to Raccoon City, insulto impietoso alla settima arte e alla recitazione in quanto tale.

E anche la nuova serie di Netflix ha tante cose che non vanno; del resto se fosse stata un capolavoro non ci sarebbe stato il bisogno di fare gli avvocati del diavolo. Eppure in questi otto episodi c’è ha funzionato (benino) e potrebbe far ben sperare sul futuro.

La recensione di Resident Evil: La serie

Molto in breve, la serie è ambientata su due linee temporali differenti: nel 2022, pochi mesi prima della fine del mondo e nel 2036, quattordici anni dopo la fine del mondo.

Le protagonista di entrambe le linee sono Jade e Billie Wesker (sì, pare proprio sia QUEL Wesker) che da adolescenti in lotta contro il mondo, si ritrovano “eroine” dell’apocalisse. Non è proprio così, ma del resto bisogna evitare spoiler.

La serie esplora la solita fine del mondo, tra zombie affamati (chiamati zeroes nella serie) e creature super-arrabbiate che vogliono distruggere l’umanità.

Niente di nuovo per gli appassionati del franchise, insomma.

Comunque, in questi otto episodi le due linee temporali si intrecciano di continuo, facendo perdere un po’ il filo del discorso; ma i flashback ci portano alla scoperta di come è finito il mondo e ci danno qualche indicazione sui personaggi e sul loro carattere. Sarebbe bastato un solo episodio ambientato nel 2022? Probabilmente sì; ma ormai è tardi per piangersi addosso e per attaccare il montaggio della serie.

Cosa non ha funzionato?

In molti hanno già fatto scempio del cadavere di “Resident Evil: La serie”, eppure a nostro avviso le cose che non hanno funzionato sono essenzialmente tre:

Il cognome Wesker. Parliamo di un personaggio iconico della serie di videogiochi e forse il supercattivo per eccellenza.

Nonostante il grande talento di Lance Reddick, se avessero scelto un cognome generico, indicandolo magari come uno degli scienziati a lavoro sul Virus T, probabilmente le cose sarebbero cambiate.

E non è solo una questione etnica. Reddick è afro-americano mentre il vero Wesker è, praticamente, nordico; no, non è solo questo. Il vero punto è che chi conosce il personaggio dei videogiochi, la sua storia e il suo percorso di “crescita” nel tempo, non trova giustificazioni in un cambiamento così. Certo, c’è una mezza spiegazione (senza fare spoiler) ma le molte versioni di un personaggio non giustificano assolutamente un cambiamento del genere.

Se Wesker non fosse mai stato nominato e il cognome dei protagonisti fosse stato il classico Smith, sarebbe stato più semplice mandare giù questa pillola di Joy.

La seconda cosa che non ha funzionato molto riguarda i troppi flashback. L’abbiamo appena detto, sarebbe bastato un solo episodio ambientato nel 2022 per spiegare a sommi capi chi o cosa ha causato la fine del mondo.

Ma Netflix ha voluto strafare, portando avanti quella tendenza che sta diventando molto comune, di rimpinzare le serie di flashback come se non ci fosse un domani.

Una maggiore linearità, forse, avrebbe permesso al pubblico di appassionarsi di più ai personaggi. Vedere in continuazione gli stessi volti prima giovani e stupidi e subito dopo adulti e incazzati, non fa bene all’immagine e, anzi, a tratti è snervante.

Nonostante quel che dicono gli “esperti” di cinema e videogiochi, “Resident Evil: La serie” riprende molto delle storie che conosciamo. Chi ha giocato tutti gli episodi (e intendiamo proprio tutti, inclusi quelli più improbabili) è riuscito a ricollegare facilmente le cose.

Ci sono molte differenze con la storia che conosciamo, sia chiaro; eppure in qualche modo la serie cerca di dare un senso a molte delle situazioni che racconta, collegandole più o meno con il REVerse.

Chi ha criticato il troppo distacco dal gioco o non ha esplorato tutti i vari titoli oppure era in attesa dei classici Jill e Chris del 1998. Le differenze ci sono e sono più che evidenti, ma in molti casi le associazioni (soprattutto con gli ultimi capitoli della saga) erano più che evidenti.

Ormai è chiaro a tutti che “Resident Evil” nel senso classico del termine non può essere portato sul grande o sul piccolo schermo. I personaggi che popolano quel mondo funzionano solo nei videogiochi, così come fuggire davanti ai nemici, utilizzare erbe improbabili e passare notti intere a risolvere un enigma. Ma non per questo è impossibile innamorarsi in maniera diversa dei personaggi.

Il peso delle critiche

Tra le varie critiche mosse alla serie le più dure sono quelle che la descrivono come un teen drama banale, senza zombie e pure recitato male.

Il discorso del teen drama potrebbe essere quasi condivisibile per il discorso dei flashback di cui sopra; ma tutto il resto, francamente, sembra piuttosto immotivato.

Insomma, non siamo al Globe Theater a vedere un’opera di Shakespeare, è chiaro; siamo su Netflix dove spesso e volentieri passano delle cose più che discutibili che fanno rimpiangere la quota mensile appena pagata.

Il discorso sugli zombie lascia il tempo che trova. Potevano essere sfruttati meglio? Non lo sappiamo ma probabilmente la produzione ha cercato di evitare solo l’ennesima carneficina buttata là per caso. E comunque non è che nel gioco ci siano morti a non finire, anzi. Se c’è una cosa che il buon vecchio “Resident Evil 1” per Playstation ci ha segnato è che non conta la quantità ma la qualità. Infatti in tutto il gioco ci saranno meno di 100 zombie da uccidere e il numero è molto sovrastimato.

Poi, del resto lo sanno tutti che le critiche immotivate lasciano il tempo che trovano. C’è chi definisce “capolavoro assoluto” la versione blu di Pocahontas e solo perché l’hanno visto praticamente tutti.

A questo punto è necessario chiamare di nuovo in causa “Resident Evil: Welcome to Raccoon City” che qualcuno, addirittura ha rivalutato dopo aver visto questa serie. Siamo realisti per favore.

Quel film è oggettivamente orrendo; gli attori sono (quasi tutti) completamente sbagliati; il carattere dei personaggi è ridicolo; la storia è piatta e senza un minimo di spessore pur strizzando l’occhio ai primi tre capolavori dell’industria videoludica.

Insomma, citando un noto artista, “non dico il buongusto, ma almeno il buonsenso” di ammettere che proprio non ci sono paragoni tra le due cose. “Welcome to Raccoon City” non è un B-Movie divertente, come ha detto qualcuno: è il male assoluto.

In conclusione, “Resident Evil: La serie” non è perfetta, ma sarebbero bastate poche accortezze in più per renderla sicuramente più gradevole. Forse Netflix ha peccato un po’ di superbia, cercando di strafare; ma non dimentichiamoci mai che c’è molto di peggio e spesso è proprio sotto i nostri occhi.

Semmai verrà riconfermata per una seconda stagione (cosa molto difficile) forse si potrà fare di meglio; intanto, l’unica cosa che resta da fare è riaccendere la nostra vecchia PS1 e perdersi nei ricordi, perché quel “Resident Evil”, alla fine, è l’unico che non ci ha mai deluso.

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