A Band Called Death: la recensione del documentario diretto dai registi Mark Covino e Jeff Howlett. Nel film Alice Cooper, Bobby Hackney, Dannis Hackney, David Hackney e Henry Rollins.
Nei primi anni ’70 tre fratelli Bobby, Dannis e David Hackney decidono di mettere su una band. Sono afro-americani, fanno parte di una famiglia cristiana numerosa, hanno un padre predicatore e vivono in un sobborgo della working-class nera di Detroit, non frequentano bianchi e amano gli Earth Wind & Fire. Sembra insomma che il loro cammino musicale sia su una strada lastricata di funk e soul, ma c’è qualcosa di più.
Il padre apprezza i Beatles e, quando i tre sono bambini, ci tiene a fargli vedere il quartetto di Liverpool in tv, che li ispira. Negli anni seguenti i tre vengono rapiti dalla potenza dirompente di concerti di Alice Cooper e The Who ed il demone del rock’n’roll si impossessa definitivamente di loro. Certo la musica nera è la musica nera ma anche questi ragazzetti bianchi hanno qualcosa da dire.
I tre comprano degli strumenti e iniziano a suonare nella loro cameretta, di pomeriggio e solo fino alle 6.00 per non dar fastidio ai vicini. David, il chitarrista e vero leader della band, decide che il suo stile sarà a metà tra Jimi Hendrix e Pete Townshend e inizia a scrivere alcuni pezzi. Dalla casa degli Hackney esce della musica strana, mai sentita da quelle parti, molto rumorosa e soprattutto estremamente veloce. Tutti quanti, amici, vicini e famiglia compresa gli consigliano di cambiare genere, di lasciare perdere quel rumore, quella musica da bianchi. In fondo se sei nero e vivi a Detroit nei primi anni ’70, un disco con la Motown è la cosa migliore che possa capitarti. David però, che è un vero visionario, non accetta compromessi e continua per la sua strada seguito dai fratelli. La prematura morte del padre lo porta a scegliere un nome carico di significato e simbologia: nascono i DEATH.
I tre ragazzi sono pronti per presentare la loro musica al mondo e il caso vuole che riescano ad incidere un demo per una casa discografica che è ben lontana dalle sonorità dei Death. La piccola etichetta gli procura un contratto con una major ma ad una condizione: il nome della band deve essere cambiato. Bobby e Dannis sono prontissimi al compromesso pur di firmare il contratto ma David si rifiuta. Il nome racchiude tutto il concept della band e quindi non se ne parla.
In fondo David Hackney è un precursore, un musicista vero, uno che scrive musica che sembra venire dal futuro e, come ogni vero artista, la sua necessità di diffondere in maniera integra quello che sente, la musica che gli viene da dentro, è più importante di ogni cosa; più importante anche dell’occasione della vita.
I master del demo ad alcune copie di un singolo auto-prodotto finiscono così in soffitta ed i Death terminano la loro carriera prima ancora di iniziarla.
I tre lasciano Detroit e trascorrono la loro vita in maniera piuttosto ordinaria. Bobby e Dannis mettono su una band reggae che ottiene anche un discreto successo a livello locale; il demone del rock’n’roll, invece, non ha mai abbandonato David e se non riesci a dargli sfogo come vorrebbe, si sa, il demone ti trascina in basso, verso l’autodistruzione. David Hackney muore di cancro ai polmoni nel 2000 dopo una vita di alcolismo e sigarette.
Fin qui sembra una storia poco interessante ma ecco arrivare la parte assurda.
Qualche anno dopo la morte di David grazie ad un gruppo di collezionisti/feticisti/mitomani (non c’è niente da fare, i nerd portano avanti il mondo!) alcune copie di quel singolo vengono alla luce e diventano una rarità, un oggetto di culto venduto su Ebay a 800$. Sono un sacco di soldi per il 45 giri di una band fino a quel momento completamente sconosciuta. Scoppia la Deathmania in rete tra appassionati di musica indie e punk ma di quella band nessuno sa nulla finché, per caso, uno dei figli di Dannis non sente le due tracce e riconosce l’inconfondibile voce del padre. Finalmente la storia dei Death diventa di dominio pubblico (tanto da meritarsi un articolo sul New York Times: “This Band Was Punk Befor Punk Was Punk”) quel master, registrato più di 30 anni prima, diventa ufficialmente un album ed i Death entrano prepotentemente, anche se in maniera postuma, nella storia del rock.
A Band Called Death è un documentario ben riuscito sia al livello narrativo che stilistico. La storia è raccontata direttamente dalle voci dei protagonisti (senza il bisogno di una voce narrante che accompagni per mano lo spettatore) e condita con delle semplici ma funzionali animazioni che danno vita ad alcune foto d’epoca, rendendo il tutto ancora più accattivante. Oltre a raccontare la vicenda della band risulta essere una sorta di ritratto di famiglia, specchio del legame e dell’affetto che unisce i fratelli Hackney, sentimento che probabilmente è alla base dell’alchimia che li ha portati a creare musica di quella portata. Verso la fine può risultare leggermente lungo e con una certa disparità tra la prima e la seconda parte ma, nel complesso, si segue con piacere.
Consigliato sicuramente agli appassionati di musica ma anche a tutti coloro che hanno voglia di conoscere una bella storia di amore fraterno.
Prima di vedere il film è d’obbligo l’ascolto dell’album …For The Whole World To See, che potete trovare anche su YouTube (io non vi ho detto niente!).